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venerdì 14 gennaio 2011

Tomorrow

Qui tutto è più grande, più grosso, più lungo. Gli elefanti africani sono i più grandi al mondo, i baobab sono impressionanti per la loro dimensione, gli scarafaggi che passeggiano in giardino hanno la ragguardevole lunghezza di circa quattro centimetri. Il bush si dilata a perdita d'occhio e dai ragione a Parmenide quando affermava che la terra è rotonda perchè intuisci la circolarità dell'orizzonte. Anche il tempo è dilatato. Quando vai in banca è meglio se ti porti un panino e una bottiglia d'acqua perchè puoi fare notte, se vai a Messa metti in conto che ti partono circa due ore e mezzo a meno che non ci sia un matrimonio dove le ore diventano quattro, se vedi che uno spettacolo inizia alle 18 non presentarti prima delle 20 se no fai compagnia agli addetti alle pulizie. Gli appuntamenti? Gli impegni? Puoi anche chiedere "Quando ci vediamo" irrimediabilmente la risposta sarà "Maybe tomorrow". Ma non c'è da spaventarsi sul maybe: l'appuntamento ci sarà in un momento imprecisato dei giorni successivi, a sorpresa. "Tomorrow" è una parola chiave in Africa, non è il giorno che segue l'oggi, non è una dimensione temporale stabilita che comincia alla mezzanotte di oggi e finisce ventiquattr'ore più tardi. E' un luogo indefinito dove si va a collocare tutto quello che per una qualche ragione non si fa nell'immediato. E' da quando sono entrata in contatto con la realtà africana, e parliamo di una trentina di anni fa, che sono colpita da come viene considerato qui il tempo. Mi vedo ancora sulla strada che collega Watamu a Malindi, strizzata con altre venti persone in un matatu che ci mette dai 30 minuti a due ore e mezzo a coprire quei venti chilometri, dipende da quante donne con le ceste di carote sulla testa e i polli legati per le zampe incontra sul suo percorso. Se ne vede una in fondo ad un campo che arriva  con passo elegante e lentissimo, il matatu si ferma, aspetta, la carica e riparte.Per rifermarsi mezzo chilometro più in là se ne vede un'altra all'orizzonte. Rivivo ancora la stessa irritazione nel constatare la calma dei passeggeri : ma non hanno nient'altro da fare? E rivivo lo stesso stupore nello scoprire che no, non hanno nient'altro da fare che arrivare a Malindi, fare i loro acquisti al mercato e tornare a casa. Entro il calar del sole. Sono le nove del mattino quindi c'è davanti tutto il giorno. Questo è quanto mi dice Aida, la mia vicina di casa a Malindi, e aggiunge "In una giornata ne succedono di cose ... Tu vai al mercato a far spesa, ma chi può dirti che sulla strada incontri qualcuno che ti propone un affare, che ne so, un cugino che ha ammazzato il maiale e te ne propone una parte a prezzo ridotto. Meglio il maiale delle patate". Chivuna, Zambia vent'anni dopo. Cammino nel bush in compagnia di Esther la moglie del capo villaggio da cui sono ospitata e l'unica che parla un po' di inglese. Ci siamo alzate all'alba per andare a tagliare l'erba elefante che in questo periodo dell'anno è secca e va bene per fare i tetti delle case. Esther mi ha spiegato che tra pochi giorni comincia la stagione delle piogge e allora addio erba elefante, si bagna e non si può più usare. All'orizzonte compare la sagoma di un uomo che spinge una bicicletta. Ci incrociamo "Mwabukabuti""Kabotu", inizia un serrato dialogo in cui capisco "eh,eh,ah,ah". Alla fine Esther inverte la direzione e segue l'uomo in bicicletta. Io dietro "Dove andiamo ?" Indica un punto all'orizzonte. Dopo due ore di sole a picco arriviamo in un villaggio costituito da tre case e un pollaio. L'uomo della bicicletta entra in casa ed esce con una borsa che contiene bicchieri di plastica, barre di sapone, alcune posate, delle ciotole di latta e altra mercanzia Ci si siede in cerchio mentre alcune donne pestano arachidi nel mortaio e inizia una trattativa da cui sono esclusa, per ovvi motivi linguistici ma che sembra non avere fine. Il tempo trascorre, una donna seguita da uno stuolo di ragazzini arriva con shima e rapes, la trattativa è interrotta e tutti ci mettiamo a mangiare. Arrivano altre persone, forse da un villaggio vicino, "eh, eh, ah, ah", tutti seduti a mangiare. Finito il pranzo, che sta per diventare cena visto il sole che cala come un proiettile all'orizzonte, l'uomo della bicicletta riespone le sue mercanzie, Esther acquista due bicchieri, gli altri se ne vanno con un pezzo di sapone e qualche posata e tutti ci incamminiamo in un infuocato tramonto nel bush. Chiedo a Esther "E l'erba elefante?, lei laconica risponde "Maybe tomorrow". A me hanno insegnato a non rimandare a domani quello che posso fare oggi e, in nome di ciò, ho passato la vita a spuntare sull'agenda il "to do" quotidiano con un senso di disagio se qualcosa rimaneva in sospeso, perchè il giorno dopo c'era una nuova lista e poi un'altra ancora e il fiato diventava corto. Qui invece sembra che vivano proiettati in un domani dove tutto avrà una sua collocazione.Strano vero per gente che ha decisamente meno tomorrow di noi: in molti sono sorpresi quando dico che ho sessant'anni, perchè in genere intorno ai quaranta sei destinato ad essere caricato su un pickup, circondato da famigliari e amici che cantano e portato al cimitero. E il passaggio dei pickup con la gente che canta fa parte dello scenario urbano quotidiano, ne vedi sfilare un paio al giorno a memoria che sei mortale. E che sia questa la chiave di lettura? Mi viene da pensare che il nostro è un fare nell'oggi essendo sempre proiettati in un futuro che immaginiamo senza fine, siamo affetti da una sindrome di immortalità che ci porta ad utilizzare l'oggi in funzione di un domani senza confini, grandioso, miracolistico.Qui semplicemente succede il contrario: siccome "del doman non c'è certezza", che senso ha affannarsi a fare, programmare, investire, costruire? E' meglio cogliere le occasioni lì e subito, godere e approfittare del momento attuale. Carpe diem, diceva quel tale: che avesse ragione? Una cosa è certa: provate a trovare una confezione di Tavor in una qualsiasi farmacia ...