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martedì 17 maggio 2011

Rwanda de sideribus


E’ quasi un mese che vivo in questo posto, incastonato in mezzo all’Africa, protetto da catene vulcaniche che sfiorano i 4000 metri,
ricoperto da una fittissima vegetazione, avvolto da una nebbia spessa e palpabile, in cui intravvedi sagome umane che si aggirano silenziose. Il Rwanda è un luogo difficile, difficilissimo, che muove emozioni molto profonde, è un paese che non si svela, che comunica poco, che ti accoglie sì ma con diffidenza, che sembra non chiederti nulla e che ti fa sentire impotente. Qui davvero tocchi con mano che il tuo provenire dal Nord del mondo non è automaticamente il biglietto da visita per entrare in un contatto più stretto.
E’ un paese in cui ti poni mille domande. Le più pressanti, come potete immaginare, riguardano il genocidio: che cosa è successo? Perché?Quali sono i postumi visibili e invisibili che a tutt’oggi si possono constatare?  Questo è quanto si legge all'ingresso del Museo del Genocidio di Kigali, un museo di ricostruzione storica degli eventi che hanno preceduto e che si sono svolti nell’aprile del 1994: in quel mese sono state massacrate un milione e duecentomila persone.
“ Il nostro Rwanda  è un paese di colline, montagne, foreste, laghi, di bambini che ridono, di mercati e di gente indaffarata, di suonatori di tamburo, di danzatori, di artigiani. Noi siamo capaci di spremere migliaia di colline e otto milioni di persone in 26.338 chilometri quadrati. La nostra terra è fertile e ricca, il clima è piacevole.
E’ stata la nostra casa per secoli. Siamo un solo popolo. Parliamo una sola lingua. Abbiamo una sola storia. In tempi recenti, tuttavia, il genocidio ha gettato un’ombra scura sulle nostre vite e ci ha dilaniato. Questo è un capitolo amaro delle nostre vite ma lo dobbiamo ricordare per quelli che abbiamo perso e per  il nostro futuro. Riguarda il nostro passato e il nostro futuro. I nostri incubi e i nostri sogni. La nostra paura e la nostra speranza”
Le modalità della carneficina, la follia umana che non ha più alcun contenimento, la scomparsa dei valori che caratterizzano l’uomo, il pensare che tutto ciò è stato eseguito da mani di padri, mariti, fratelli tutto ciò ti arriva come un pugno nello stomaco. Non sono uno storico e non pretendo di dare spiegazioni a questi eventi. Mi limito ad esporre i fatti. Il colonialismo tedesco prima e belga successivamente aveva decretato senza pudore la divisione tra Tutsi, Hutu e Twa. “We did not choose to be colonised” si legge sui muri del Museo. Nessun africano ha mai scelto di essere colonizzato ma in molti paesi la colonizzazione ha portato anche dei benefici. I rwandesi non negano che scuole, ospedali e numerose infrastrutture del periodo coloniale sino stati provvidenziali, ma questo non ha ripagato il danno sociale della politica razziale imposta dai belgi.

 L’identità sociale dei rwandesi era in origine associata a diciotto differenti tribù. Le categorie Tutsi, Hutu e Twa erano classificazioni socio-economiche all’interno delle tribù e potevano cambiare a seconda delle circostanze. Sotto il regime coloniale la classificazione è diventata razziale: il potere belga nel 1932 istituisce una “carta d’identità” secondo la quale identificava come Tutsi tutti quelli che in quel momento possedevano dieci mucche e come Hutu tutti quelli che ne avevano di meno.
Legge da applicarsi a tutti i discendenti. Una società fino ad allora unita inizia a dividersi, la disuguaglianza imposta genera rabbia e rivendicazione interna alla popolazione, e a nulla vale l’indipendenza dal Belgio ottenuta nel 1962. In quegli anni il Rwanda era uno stato altamente centralizzato e repressivo con un partito unico Hutu, caratterizzato dalla persecuzione e dalla pulizia etnica dei Tutsi che , rifugiatisi fuori dal paese si organizzano in un Fronte Patriottico Rwandese (RPF) e rientrano nel 1990 dando inizio ad una guerra civile.

Tra l’ottobre del 1990 e il febbraio 1994 migliaia di Tutsi furono massacrati. E il mondo? Stava a guardare? La Francia appoggiava il governo Hutu e forniva le armi, l’amministrazione Clinton esprimeva dubbi sul termine “genocidio”, l’ONU inviava un contingente di pace con Romeo Dellaire come comandante ( ricordate Nick Nolte nel film “ Hotel Rwanda”?). Dellaire ha fatto l’impossibile per avvertire che si stava preparando un’apocalisse ma il suo appello è rimasto inascoltato. Il mondo non ha guardato, ha semplicemente voltato la faccia dall’altra parte. Chi invece ha visto, chi è stato testimone, chi è scampato perché si è finto morto sotto un cumulo di cadaveri, o perché è riuscito a nascondersi porta dentro di sé il segreto orribile dell’uomo che si fa bestia. Un segreto che non trova le parole per essere espresso ma che si percepisce negli sguardi, nel silenzio, nella riservatezza che a volte sfiora la diffidenza. Il genocidio ha ucciso ben più di un milione di persone, ha ucciso la fiducia nella gente, la speranza, l’amore, il desiderio
I desiderantes ,ci narra Giulio Cesare nel “De bello gallico”, erano i soldati che osservavano le stelle e aspettavano quelli che dopo aver combattuto durante il giorno, non erano ancora tornati. aspettare un compagno che non arriva significa attesa, desiderio di rivederlo e di riabbracciarlo. Il desiderio è mancanza e la via d’uscita è rappresentata dall’ amore. Questo è il significato del verbo desiderare. Se qualcosa noi possiamo fare qui è aiutare questa gente a riappropriarsi del proprio desiderio, testimoniare con la nostra presenza che è ancora possibile per loro stare sotto il cielo stellato in attesa fiduciosa che domani sarà un giorno in cui si può di nuovo sorridere.



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